In un articolo sul sito altalex.it si saluta con entusiasmo “la fine della mediazione obbligatoria” e si indica immediatamente la strada alternativa nella “procedura partecipativa di negoziazione”assistita da un avvocato secondo un recentissimo modello francese. Insomma la mediazione va bene in alternativa alla via giurisdizionale, ma l’unica figura professionale cui affidare la tutela dei diritti può e deve essere solo l’avvocato.
I cittadini, titolari dei diritti in contestazione, vengono privati della loro autodeterminazione: sorto un conflitto, le persone, per poterlo risolvere, possono e devono rivolgersi solo all’avvocato.
Viene bandito, in questo modo, il principio di auto-responsabilità che, prima ancora di entrare nel mondo del diritto, riguarda la sfera esistenziale del soggetto.
Non mi pare che tale approccio risulti realistico e tantomeno costruttivo per l’evoluzione futura della società; né mi pare che possa costituire un insegnamento serio per le future generazioni.
In primo luogo va ricordato che il principio deontologico essenziale che presiede alla qualificazione della professione forense è la tutela del diritto del cliente. E’ perciò connaturata alla funzione sociale dell’avvocato la logica dell’interesse individuale di parte pur nel rispetto della legge. Quindi l’avvocato deve sempre ed in ogni caso perseguire solo l’interesse del cliente pur conformando la sua attività all’osservanza della legge, che per definizione tende a contemperare gli interessi in conflitto.
La clausola generale della buona fede, ormai invocata sempre più spesso dalla giurisprudenza nei rapporti civili, quale espressione del principio costituzionale di solidarietà ex art. 2 Cost., altro non è che il vincolo per il soggetto giuridico di tutelare il proprio interesse personale sempre e comunque nel rispetto dell’altro; ma la buona fede prima che essere un principio di diritto costituisce una regola del buon vivere civile in grado di assicurare la tranquillità e la continuità dei rapporti, nel rispetto della persona.
In secondo luogo si dice che un sistema democratico consente ai cittadini di partecipare alla gestione della cosa pubblica; si parla di istituti di democrazia diretta e di democrazia indiretta; ed allora come è possibile che in questo stesso sistema non sia lasciata alle persone la gestione diretta dei propri interessi individuali!
Come è possibile che in un sistema democratico, in cui il demos è sovrano venga sottratta la prerogativa essenziale della persona ovvero la capacità di discernimento e, al contrario, venga esaltata la delega ad altri per la risoluzione dei propri problemi?
In terzo luogo la esaltazione incondizionata di un soggetto, di un organo o di una professione che funga da unica panacea per la risoluzione di tutti i mali non risponde alla nozione di pluralità insita nella struttura democratica di un paese.
Ed allora questa sublimazione della professione forense, quale unica possibilità di gestione dei rapporti sociali, la difesa strenua della figura del’avvocato come unico professionista capace di garantire la tenuta del sistema, mi sembra lesiva della nozione di persona come intesa dalla nostra Costituzione.
Se questo è il pensiero dell’avvocatura, pare proprio che sia sfuggito il significato del rinnovamento culturale possibile anche attraverso la mediazione che parte dall’individuo per ripercuotersi nella collettività.
Il significato profondo della mediazione è la elevazione dell’ individuo e lo sviluppo della sua autodeterminazione; dunque la capacità di autogestire i propri interessi nel rispetto dell’altro; la capacità di vivere in questa realtà complessa pur nella comprensione della diversità.
Il titolare dell’interesse, nei fatti, è l’unico a conoscere il suo vero interesse; anzi, poiché “interesse” ha un significato già giuridico, potrebbe parlarsi di “bisogno” pregiuridico. E la soluzione conciliativa tende a raggiungere la soddisfazione del bisogno ovvero di quel pensiero remoto, a volte irrazionale ed inconfessato, innescato dal conflitto.
Perciò, invece di delegare ad un terzo (l’avvocato) la RICERCA della soluzione, nella mediazione le parti, con l’aiuto di un professionista specializzato, procedono in questo lavoro di autogestione prima interna e poi riferita all’esterno: determinatosi un conflitto, si parte da una posizione certamente individuale e selettiva dei soli propri interessi e con metodo euristico si tende a raggiungere una soluzione partecipata.
In definitiva ciò che qualifica l’istituto della mediazione non è il punto di diritto ma è il metodo di ricerca che è quello della comunicazione.
Il diritto, che pure tende a risolvere i conflitti, costituisce la cornice, poiché rappresenta sempre e comunque il confine invalicabile alla volontà del soggetto: la libertà di un soggetto, valore primario della società attuale, si ferma davanti alla libertà dell’altro; e questo limite è individuato proprio dal diritto.
Ed allora la struttura di un sistema democratico certamente contempla strumenti di risoluzione delle controversie, anche alternativi al processo, in cui protagonisti rimangano i soggetti interessati. E questo soprattutto in relazione a rapporti quotidiani di convivenza o che si connotano per il sorgere da relazioni familiari basati più su legami emozionali che giuridici.
Gli avvocati, forse, ignorano questo aspetto che invece si palesa dirimente per l’esatta comprensione dell’istituto e per la sua giusta collocazione nel sistema.
Certo il Ministro della Giustizia ha perseguito con tenacia l’obiettivo della mediazione guardando più ad uno degli effetti (deflazione del contenzioso civile) che non alla sua sostanza; ma questo è un atteggiamento certamente pratico, che, però, non rileva in quanto neutro rispetto alla sostanza.
Il modello francese viene reputato appropriato anche in materia di separazione e divorzi. Niente di più inadeguato: sono più di vent’anni che in Italia si pratica la mediazione familiare e quest’esperienza ha dimostrato che, in un ambito in cui l’aspetto patrimoniale è secondario ma diviene principale in quanto espressione della emotività dei contendenti, una separazione, condotta da un mediatore familiare (che ben può essere un avvocato adeguatamente formato alle logiche della relazione e della comunicazione) è destinata a durare per un tempo molto maggiore rispetto a quella conclusa da due avvocati. E ciò perché il mediatore nella conduzione del procedimento parte da quelli che sono i bisogni interiori dei due “ex coniugi” per arrivare al punto di diritto.
Ciò che fonda l’accordo di separazione è un “consenso partecipato”; la negoziazione partecipata può trovare il suo fondamento solo in un sereno “consenso partecipato” all’accordo ed al suo contenuto: se non c’è apertura, condivisione e quindi consenso partecipato non ci può essere negoziazione partecipata e quindi non ci potrà essere un accordo duraturo.
Ora la condivisione della posizione anche emotiva dell’altro coniuge è un passaggio assolutamente estraneo alla logica di parte dell’avvocato ed alla sua deontologia.
In definitiva non si vuole dire che l’avvocato non possa assicurare la tutela dei diritti delle persone ma certo non è l’unico, anzi un ordinamento democratico deve contemplare la tutela di essi da parte dei diretti interessati; non si vuole dire che l’avvocato non possa essere un buon mediatore, ma, per esserlo, deve necessariamente abbandonare la logica dell’interesse di parte ed aprirsi ad un metodo euristico diverso; piuttosto la conoscenza della legge consente di concludere buoni e durevoli accordi perché non sottoponibili a censura.
L’autonomia dell’avvocato-mediatore non è messa in dubbio dall’essere nominato da un organismo di mediazione in quanto deve condurre la sua attività secondo regole deontologiche stabilite in relazione alla natura ed alla funzione della figura del mediatore.
Quanto alla considerazione di una giustizia privatizzata non va dimenticato che la predeterminazione di regole oggettive e precise per il funzionamento di un istituto o di un organo garantisce tendenzialmente la imparzialità ed il buon funzionamento di quest’organo; poiché, però, gli organi, le istituzioni, le società funzionano con l’apporto necessario delle persone anche la migliore delle regole trova la sua efficacia soltanto nella sua osservanza.
In definitiva sarebbe opportuno esercitare la dote dell’umiltà e coltivare il valore della fiducia, il primo nella valutazione dei nuovi istituti che ci giungono da paesi in cui vantano una chiara esperienza positiva, e il secondo nella considerazione dei rapporti interpersonali, pena una stasi evolutiva che certo non gioverà alle future generazioni.
dott.ssa Cristiana Caruso
Formatore ISCO adr